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Immigrazione PrimoPiano

Migranti, in Europa non ha perso il Governo Conte: ha perso l’Italia. Serve un cambio di passo

L’Italia ha perso. No, ovviamente non sto parlando dei mondiali di calcio, ma di qualcosa di più importante. La nostra posizione al Consiglio europeo di giovedì e venerdì è stata travolta dai veti e dall’isolamento in cui ci ha cacciato il Governo. Non ci trovo nulla di positivo in questo e rifuggo dalle letture di chi (anche nel mio partito) esulta per l’esito del vertice.

Cosa è successo? Sostanzialmente si sono fatti solo passi indietro rispetto ai punti di partenza (qui il documento finale approvato al termine del vertice). E’ stata eliminata qualsiasi possibilità di modificare gli accordi di Dublino che obbligano i paesi di primo approdo a farsi carico da soli della gestione dei migranti; è stato cancellato l’obbligo del ricollocamento, che ora sarà attivo solo “su base volontaria”; i migranti che si trovano in uno stato diverso da quello di primo approdo, dovranno obbligatoriamente tornare non “a casa loro” ma nel primo stato europeo in cui hanno messo piede, cioè “a casa nostra”, in Italia. Non è un caso che gli unici ad esultare davvero per l’accordo siano paesi come l’Ungheria di Orban, che ormai è sempre più lontano dall’essere uno stato democratico.

L’Italia ha bisogno non solo di un governo, ma anche di persone che abbiano la forza di farsi rispettare. Battere i pugni sul tavolo è un’espressione che fa presa sui media, ma purtroppo non funziona quando devi trattare con altri 27 stati e le decisioni si prendono all’unanimità.

Al di là delle differenti opinioni politiche e delle differenze che rimangono, da italiano spero davvero che ingranino un’altra marcia, ne va dall’interesse e del futuro della nostra comunità nazionale. Perché si può, anzi si deve fare un’opposizione senza sconti al Governo; ma non saremo mai all’opposizione dell’Italia.

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Politica PrimoPiano Romagna

Più autonomia per l’Emilia-Romagna: cosa cambierà e quali saranno i prossimi passaggi.

Ciò che avevamo chiesto qualche giorno fa attraverso un’apposita interrogazione al ministro Erika Stefani si è verificato: la settimana scorsa si è tenuto a Roma un incontro tra il Presidente Bonaccini e la ministra per gli Affari regionali. L’obbiettivo era quello di giungere alla definizione del percorso che porterà la nostra regione ad una maggiore autonomia, la cosiddetta “autonomia rinforzata”.

Questa possibilità viene espressamente indicata dalla Costituzione all’articolo 116, dove si indicano anche i passaggi necessari affinché una regione ottenga questa possibilità: l’iniziativa deve partire dalla regione stessa, dopo essersi consultata con gli enti locali (e le rappresentanze economiche, sociali ed istituzionali); la legge, infine, dovrà essere approvata a maggioranza assoluta dal parlamento. È esattamente questo il percorso che la giunta presieduta da Stefano Bonaccini ha seguito in questi mesi, giungendo rapidamente all’accordo del febbraio scorso con il governo Gentiloni e alla promessa di concludere il negoziato con il nuovo governo entro l’anno.

Al tavolo delle trattative col governo Gentiloni a febbraio, c’erano anche altri due presidenti di regione, Luca Zaia e Roberto Maroni, anche loro con l’obbiettivo di ottenere maggiore autonomia per Veneto e Lombardia. Con una differenza: il percorso di queste due regioni è costato ai cittadini complessivamente 64 milioni di euro (50 per la Lombardia e 14 per il Veneto), perché si è deciso che fosse meglio passare da un referendum consultivo che aveva tutto il sapore di strategia politica interna al centrodestra in vista delle elezioni del 4 marzo: la Lega voleva presentarsi come l’alleato più forte tra Forza Italia e Fratelli d’Italia. Una decisione che ha probabilmente pagato in termini di consenso, ma che è costata decine di milioni di euro. La scelta fatta dalla giunta emiliano-romagnola, invece, ha dimostrato una maggiore responsabilità, dato che ha ottenuto gli stessi risultati presentando una semplice richiesta al governo, senza spendere un euro in campagne referendarie meramente simboliche.

A questo punto cerchiamo di capire in cosa consisterà questa maggiore autonomia:

le competenze per le quali la regione ha chiesto una gestione diretta fanno parte di quelle materie strategiche per aumentare la crescita (che già c’è e si sente nella nostra regione) secondo un modello di sviluppo sostenibile, e per rafforzare e innovare i servizi di cura e sostegno alle persone.

Queste competenze riguardano:
• Politiche del lavoro
• Istruzione
• Salute
• Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema
• Rapporti internazionali e con l’UE

In questo modo si potranno per esempio rimuovere i vincoli di spesa specifici e migliorare l’assetto organizzativo delle strutture sanitarie, come anche programmare l’accesso alle scuole di specializzazione e le borse di studio per i medici specializzandi; si otterrà autonomia nella programmazione degli interventi di difesa del suolo e della costa regionale, di conservazione e valorizzazione di aree protette di cui la nostra regione è ricca.

Saranno riconosciute alla regione la competenza legislativa per regolare e aumentare l’efficacia degli ammortizzatori sociali e l’autonomia legislativa e organizzativa in materia di politiche attive del lavoro.
Per quanto riguarda l’istruzione, la regione potrà adottare un piano pluriennale per definire la dotazione dell’organico e l’attribuzione alle autonomie scolastiche, oppure programmare un’offerta integrativa di percorsi universitari atti a favorire lo sviluppo specifico del nostro territorio.

Questi sono solo alcuni degli esempi delle possibilità che l’autonomia richiesta dall’Emilia-Romagna offrirà alla nostra regione e, come si può intuire, a beneficiarne sarebbero tutti i cittadini emiliano-romagnoli; è perciò fondamentale che si proceda celermente verso l’approvazione di questa legge, visto che sono presenti le condizioni per approvarla.

La nostra è una regione virtuosa, anzi tra le più virtuose in Europa, e in parlamento, se e quando si renderà necessario, saremo pronti a lavorare in maniera unitaria mettendo da parte le diverse appartenenze per agevolare al massimo l’iter del provvedimento. Mi auguro che anche gli altri parlamentari facciano lo stesso.

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PrimoPiano Romagna

Porto, Ravenna attrae investimenti: si conferma strategico per la Romagna

Il porto di Ravenna, anzi, il porto della Romagna, trova una importante conferma della sua importanza: una grossa multinazionale cinese, presente in oltre 50 porti in tutto il mondo, ha deciso di stabilirsi qui con un investimento che sfiora i 10 milioni di euro e una previsione di 100 assunzioni in due anni. La Cmit si troverà sede in uno storico palazzo che fu del gruppo Ferruzzi (guidata da Raoul Gardini), ridando vita ad una parte fondamentale della città; sarà il quartier generale del gruppo leader nella progettazione di navi e impianti per il settore dell’oil and gas, nonché nel design interno delle navi da crociera.

Un investimento che si va ad inserire nel più ampio progetto di riqualificazione e rilancio del porto, il quale, grazie anche all’autonomia mantenuta a seguito della razionalizzazione e riordino delle Autorità di Sistema portuale attuata con il decreto Delrio del 2016, vedrà crescere ed ampliare l’area portuale dal 2019 con consistenti lavori. In particolare verranno approfonditi i fondali, costruite nuove banchine, realizzate aree destinate alla logistica e di raccordo con la rete ferroviaria, oltre che adeguare tutte le strutture alle normative antisismiche; un progetto che prevede oltre mezzo miliardo di euro di investimenti (di cui 300 milioni da privati, 37 milioni dall’Unione Europea e 60 milioni dal Cipe).

La Romagna deve sentire come propria questa infrastruttura e Ravenna deve favorire un approccio non solo localistico, ma di sistema alle politiche della logistica. Che sono una delle chiavi per aprire la porta del futuro ai nostri territori, generare nuove opportunità, attrarre investimenti.

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Cultura Giovani PrimoPiano

Il bonus per i 18enni rimane: una vittoria dei giovani e della cultura

“I fondi per il 2018 e per il 2019 ci sono, verranno riattivati e verranno erogati ai nati nel 2000 e nel 2001”: con queste parole il neo ministro dei Beni Culturali, il grillino Alberto Bonisoli, ha fatto marcia indietro rispetto alla decisione di qualche giorno fa di non rifinanziare il bonus cultura ai 18enni che abbiamo introdotto nella scorsa legislatura. Queste parole arrivano dopo una mobilitazione che abbiamo promosso in tanti e che ha visto il sostegno anche di molti ragazzi.

“18 app” è un provvedimento preso come esempio anche in Europa che ha un semplice obiettivo: far avvicinare alla cultura in ogni sua espressione i ragazzi e le ragazze che si stanno affacciando nel mondo dei grandi. Un investimento di 200 milioni di euro che fino ad oggi ha permesso a 800.000 giovani di poter acquistare libri (per un totale complessivo di quasi 132 milioni di euro), cd, concerti, biglietti del cinema, spettacoli teatrali ed eventi culturali: credo ci siano poche cose più belle dell’aiutare i nostri giovani a crescere più istruiti, più acculturati, più interessati e curiosi del mondo che li circonda.

Se anche un solo ragazzo si è appassionato alla lettura o al cinema grazie a 18app è comunque un successo di cui andare orgogliosi: abbiamo contribuito nel nostro piccolo a rendere migliore la vita di quel giovane.
È positivo che il ministro abbia cambiato idea: speriamo che in futuro il governo dedichi alla cultura le stesse energie e gli stessi fondi che sono stati dedicati negli ultimi anni. “Con la cultura non si mangia” diceva qualcuno. C’è da augurarsi che i tempi bui in cui si faceva cassa tagliando sulla cultura siano finiti per sempre.

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Politica PrimoPiano

Comincia il lavoro nelle Commissioni: il mio impegno in “Affari costituzionali”

Si sono finalmente insediate, dopo quasi 4 mesi, le commissioni parlamentari. Sono stato confermato in Commissione Affari costituzionali, presidenza del consiglio e interni, una delle due commissioni in cui ho lavorato anche nella precedente legislatura. Considero un ‘onore nell’onore’ essere un membro del parlamento e componente di questa commissione. La prima commissione è la più prestigiosa e importante del parlamento, assieme alla Bilancio, ed è strategica per molti temi di grande rilevanza per il Paese.

Mi è stato proposto a poche ore dall’insediamento di spostarmi alla commissione Difesa, dove avrei potuto svolgere il ruolo di vice presidente. Ho rifiutato, perché non mi sono mai occupato di quegli argomenti (salvo quando riguardavano il mio territorio); e perché sono convinto che non si faccia politica per acquisire cariche fini a se stesse, ma per dare una mano dove si è utili. Se potrò essere utile, lo sarò di più qui dove ho lavorato negli ultimi 4 anni seguendo tantissimi argomenti.

Di cosa si occupa la commissione? Ecco un elenco abbastanza ampio, ma non completo di tutte le tematiche: affari costituzionali; disciplina delle fonti del diritto e problemi della legislazione; affari della Presidenza del Consiglio, esclusa l’editoria; disciplina generale del procedimento amministrativo; organizzazione generale dello Stato, comprese l’istituzione, la riforma e la soppressione di Ministeri e di autorità amministrative indipendenti; disciplina delle funzioni della Corte dei conti; ordinamento, stato giuridico ed economico dei dirigenti pubblici e delle categorie equiparate; ordinamento regionale; ordinamento degli enti locali; disciplina generale degli enti pubblici; questioni relative alla cittadinanza; immigrazione; disciplina dei servizi di informazione e sicurezza; ordine pubblico e polizia di sicurezza; ordinamento, stato giuridico ed economico delle forze di polizia; affari del culto.

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Diritti Immigrazione PrimoPiano

Immigrazione e sbarchi come strumento di propaganda; ma non basta dire no, serve un’alternativa basata sui doveri

Finalmente la nave-spot Aquarius è approdata a Valencia, per fortuna senza portare con sé alcuna vittima. Questa vicenda è stata utilizzata come un enorme spot elettorale (e sì, le elezioni ci sono state quasi 4 mesi fa, ma faceva comodo usarla per le campagne elettorali di molti comuni che stanno andando al voto) dal nostro nuovo ministro dell’Interno, quel Matteo Salvini che evidentemente non ha smesso i panni da comizio per indossare quelli più consoni al suo ruolo di membro del governo e vice presidente del Consiglio.

Oltre ad essere uno spot, la vicenda della nave Aquarius è risultata essere anche un grande bluff dato che, mentre Salvini sparava bordate a destra e a manca contro Francia e ONG, oltre 2000 persone venivano (fortunatamente) salvate in mare dalle nostre navi e sbarcate nei porti italiani. La prima domanda che ci è sorta è stata chiaramente sull’eticità, oltre che la regolarità, di lasciare praticamente alla deriva oltre 600 persone, donne e bambini inclusi, per poter lanciare qualche slogan e qualche tweet in rete; ma subito dopo ci siamo chiesti come mai si è giunti a questo punto e quale possa essere un’alternativa a simili “politiche” che, bisogna ammetterlo, in questo periodo fanno presa su buona parte dell’opinione pubblica.

Intanto iniziamo con il sottolineare come, nell’ultimo anno, gli arrivi di immigrati in Italia siano diminuiti del ben 82%, la rotta libica si è ridotta enormemente lasciando spazio a nuove e vecchie rotte, come quella che passa dal Senegal, attraverso la Mauritania per arrivare in Marocco e da lì, in Spagna. Un’inversione di tendenza che non ha certo origine nei 15 giorni di governo lega-5stelle, ma che è iniziata con le politiche dell’ex ministro dell’Interno Minniti e con il governo Gentiloni.
Quindi Salvini, oltre ad utilizzare la questione immigrazione per non parlare delle promesse elettorali che interessano veramente gli italiani, come la famosa flat tax, il reddito di cittadinanza, e l’abolizione della legge Fornero (sulle quali non hanno probabilmente idea di come attuarle), mente quando dice che “abbiamo fatto più noi in 15 giorni di governo che il Pd in 6 anni”.

La questione immigrazione è comunque molto complessa e ovviamente non bastano azioni simboliche e slogan per risolverla. Il lavoro che aveva iniziato a fare il governo Gentiloni sta dando i suoi frutti, gli arrivi stanno diminuendo perché diminuiscono le partenze. L’obiettivo quindi deve essere duplice: da una parte lavorare in stretta cooperazione con le autorità dei Paesi di partenza, tra cui ovviamente la Libia, in modo tale da garantire maggiori controlli sulle reti dei trafficanti e una migliore gestione dei flussi migratori; dall’altra, per coloro che arrivano nel nostro territorio, sviluppare un progetto funzionante di integrazione, responsabilizzazione e formazione che miri ad affiancare ai giusti diritti delle persone in fuga da guerre e miseria, i doveri che l’essere accolti comporta.

Coniugare diritti e doveri, rafforzando questi ultimi, è utile e importante non solo per chi accoglie; ma anche per chi arriva. Perchè l’obbligo di apprendere la lingua, imparare i rudimenti del nostro diritto e della convivenza civile, poter essere impiegati nella propria comunità con lavori e progetti di pubblica utilità, sono solo alcune delle molte ragioni che renderebbero più sostenibile e meno ‘pesante’ la gestione dei flussi. Significa favorire l’integrazione, non mortificare l’impegno degli immigrati che ci provano e si rimboccano le maniche, trasmettere messaggi positivi.

Certo è più facile lanciare la campagna #chiudiamoiporti che risolvere i problemi; anzi, questo atteggiamento rischia ancora una volta di far cadere il nostro Paese in un isolamento internazionale che non aiuterà di certo ad affrontare questioni così delicate.

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Agricoltura Diritti Lavoro Legalità Politica PrimoPiano

Caporalato, con la nuova legge stretta sugli sfruttatori: no alla sua eliminazione

Il governo giallo-verde si è insediato da meno di un mese ma già fioccano le polemiche su diversi temi delicati: dalla gestione dell’immigrazione, al superamento del “bonus cultura” per i 18enni, fino alla volontà di superare la legge contro il caporalato.

Su quest’ultimo fronte, il neo ministro per le Politiche agricole, il leghista Gian Marco Centinaio, ha affermato pubblicamente la volontà del nuovo esecutivo di cambiare e superare la legge n.199/16, con la quale il parlamento nella precedente legislatura ha messo un’argine ad una pratica disumana che ledeva la dignità di troppi lavoratori. Gli ha fatto eco il vice premier Salvini con la consueta grancassa mediatica.

È davvero così? Come stanno realmente le cose? Analizziamo i numeri, che parlano di persone salvate e di caporali consegnati alla giustizia.

Secondo il “Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale” dell’Ispettorato nazionale del lavoro, pubblicato lo scorso febbraio, da quando la legge è entrata in vigore il 3 novembre 2016, sono stati identificati 5.222 lavoratori irregolari, di cui 3.549 in nero. Inoltre, sono stati individuati 387 lavoratori che venivano sfruttati nei campi e sono state sospese 360 attività imprenditoriali.

Prima di questo provvedimento di dignità e di civiltà, queste persone non avevano alcuna tutela: per pochi euro l’ora, infatti, lavoravano anche 15 ore al giorno, in presenza di qualsiasi condizione atmosferica e senza una minima tutela della propria salute. Per il ministro Centinaio la prova che la legge non funziona sta “nelle bidonville che sono rimaste” con i caporali che continuano a sfruttare le persone.
Lo sfruttamento continua ad esserci perché non si può estirpare dall’oggi al domani un fenomeno che ha segnato il lavoro nelle campagne (ma non solo) per decenni.

Proprio per questo, la legge non deve in alcun modo essere smantellata: deve rappresentare un deterrente semmai da potenziare contro tutti quei criminali che hanno ottenuto il proprio guadagno sulla pelle di persone disposte a tutto pur di lavorare. Si ragioni semmai su come migliorarne l’applicazione, su come salvaguardare chi opera in regola nel pieno rispetto delle norme rispetto a chi puntualmente le aggira, su come renderla più efficace; ma non si elimini un provvedimento che va nella direzione giusta, quella di difendere la qualità del lavoro.

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PrimoPiano Romagna

Forlì: il successo delle grandi mostre, il protagonismo del territorio, l’obiettivo di capitale italiana della cultura

Oltre 100mila persone hanno visitato la mostra “L’Eterno e il tempo, tra Michelangelo e Caravaggio” chiusa il 17 giugno a Forlì. Un’esposizione dalla bellezza straordinaria, a partire dall’allestimento della chiesa di San Giacomo per la prima volta utilizzata a questo scopo. Il successo di pubblico conferma che le grandi mostre a Forlì – rese possibile dalla virtuosa collaborazione tra Comune e Fondazione – vanno confermate; ciò su cui c’è bisogno di lavorare di più, semmai, è potenziare l’investimento per “spalmare” la ricaduta di questi eventi su tutto l’entroterra.

Serve allora un progetto più ampio di quello espositivo. Senza un’offerta capillare, organizzata in un unico itinerario e commercializzata nei mercati di settore da professionisti appositamente dedicati, diventa difficile cogliere l’enorme potenziale di questi eventi.

Le grandi mostre sono il fiore all’occhiello di una città che negli ultimi anni si è affermata in Italia come città d’arte e di cultura, ma che è caratterizzata anche da un fermento di associazioni, operatori, artisti, appassionati, giovani e meno giovani, enti pubblici e privati che su tutto il comprensorio Forlivese sono attivi durante tutto l’anno in ogni settore. Se questo Governo confermerà il riconoscimento annuale (e non è detto visti gli annunciati tagli alla cultura), Forlì e il suo comprensorio dovrebbero candidarsi a Capitale italiana della cultura nei prossimi anni.

Non so se riusciremmo a vincere il titolo, ma certamente sarebbe uno sforzo ben speso perché la candidatura impone l’elaborazione di un progetto unitario di ciò che si vuol fare sulle politiche culturali e su tutte le azioni ad essere connesse. Una sorta di piano strategico per la città e il territorio di domani.

Se non ci prova una città di provincia che da oltre un decennio riesce a organizzare mostre da oltre 100mila visitatori; con eventi di richiamo internazionale; un campus universitario d’eccellenza e corsi di laurea tra i migliori del Paese; un comprensorio che va dalla montagna fino a pochi km dal mare; giacimenti storici che hanno segnato la storia del Novecento; paesaggi naturalistici unici e riconosciuto dall’Unesco; prodotti eno-gastronomici di impareggiabile qualità; se non ci prova – dicevo – un territorio con tutto questo e molto altro, chi deve provarci?
Con un po’ di orgoglio, ambizione e spirito unitario, si può fare.

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Economia e Finanza Europa Lavoro PrimoPiano

Fine del “piano Draghi”: risultati e rischi per l’Italia

Il “piano Draghi” per il rilancio dell’economia dell’Eurozona è partito all’inizio del 2015 e si appresta nei prossimi mesi ad essere progressivamente allentato, fino alla sua chiusura definitiva verso la fine di quest’anno.

Quello che tecnicamente viene definito “QE” (Quantitative Easing) altro non è che uno strumento di politica monetaria che le banche centrali possono utilizzare per immettere liquidità all’interno del sistema finanziario, stimolando così la crescita economica e la ripartenza del tasso di inflazione dei prezzi.

Nello specifico, fino ad oggi la BCE ha acquistato mensilmente (talvolta in maniera anche massiccia, si veda il caso del “bazooka” di inizio 2015) i titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona e altre obbligazioni (quelle emesse, ad esempio, da regioni ed enti locali). Obiettivo: immettere nuovo denaro nell’economia europea, incentivare i prestiti verso le imprese e far crescere l’inflazione. Comunemente la crescita dei prezzi è percepita come qualcosa di negativo: al contrario, il rischio della deflazione, ossia il crollo dei prezzi (con le imprese che guadagnano meno, riducono la loro produzione e rinunciano a nuove assunzioni) è ben peggiore per la tenuta della nostra economia. È per questo che tenere il tasso di inflazione attorno al valore del 2%, obiettivo fissato dal governatore Draghi, può solo giovare al nostro sistema.

 

Quali sono i rischi per il nostro Paese dopo la fine del QE? Gli obiettivi sperati sono stati raggiunti?

 

Innanzitutto il tasso di inflazione dell’Eurozona si è attestato ad aprile all’1,24%, lontano dunque dal tetto del 2%. In più, una volta che la BCE finirà con il suo piano di acquisto di 30 miliardi al mese di titoli di Stato, l’Italia e gli altri Paesi dovranno affrontare da soli gli investitori nelle aste in cui verranno collocati i titoli nazionali.

La mancata credibilità che l’attuale governo ha a livello internazionale (si veda l’andamento dello spread, che con il governo Renzi aveva toccato il punto più basso degli ultimi anni) è il segnale evidente di come la speculazione finanziaria sia in agguato e senza il paracadute del “piano Draghi” il rischio per i conti pubblici è serio.

Che inizino a governare per davvero questo Paese, mettendo da parte la campagna elettorale e le promesse irrealizzabili: se non si passa al più presto dagli spot per il consenso al buonsenso, a rimetterci saranno i cittadini e i loro risparmi, con buona pace di ogni tentativo di salvataggio messo in campo negli ultimi anni.

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Economia e Finanza PrimoPiano

I pagamenti digitali sono il futuro: più sforzi per incentivarli ed educare

Sono intervenuto al “Digital & Payment summit” di Roma, evento annuale dedicato all’evoluzione del sistema del digitale e dei pagamenti elettronici (cioè senza contante). Mi ha fatto molto piacere raccogliere l’invito degli organizzatori a portare il mio punto di vista sul tema, essendomene occupato più volte; è stata un’occasione molto utile anche per ascoltare il punto di vista degli operatori del mercato, delle Autorità di vigilanza e di tanti addetti ai lavori.

L’Italia sconta un ritardo strategico: siamo al di sotto della media europea e dei valori dei pagamenti digitali di molti nostri paesi partner. Ciò nonostante un incremento considerevole si è registrato negli ultimi tempi. Oltre il 15% degli acquisti online nel 2018 si svolgerà attraverso i New Digital Payment; negli ultimi due anni gli acquisti con smartphone sono aumentati del 48% e le carte contactless passano da 12 a 20 milioni. Oltre 500mila sono i POS abilitati a queste nuove forme di pagamento. Insomma, l’Italia si sta, seppur lentamente, attrezzando per accettare e vincere la sfida. Che potremmo vincerla davvero solo se cambieremo il punto di vista, trasformandolo da problema a opportunità.

Colmare questo gap è importante non tanto per risalire le statistiche, ma perchè l‘incremento dei pagamenti digitali permette maggiore trasparenza, emersione del nero, efficienza, miglior produttività. Abbiamo quindi il dovere di insistere su questo settore, sapendo che i pagamenti digitali nei prossimi anni verranno trainati soprattutto dalla diffusione dei contactless card payments (pagamenti carta con chip, sotto i 25€ senza PIN) e dai mobile payments (pagamenti da telefonini).

Uno sviluppo che sarà trainato soprattutto dalla crescita di operatori di grande dimensioni e che possono vantare dalla loro migliori di clienti attivi e potenziali perchè già fidelizzati per altre tipologie di servizi (mi riferisco a servizi come, ad esempio, ApplePay, SamsungPAY, AmazonPay, AliPay, ecc.).

Va poi considerato che oltre ai pagamenti in-store, i mobile payments abilitano il cosiddetto peer2peer (P2P) cioè lo scambio di soldi tra privati (es: per dividere il conto del ristorante). Un mercato nel quale sta per tuffarsi un altro operatore dal potenziale enorme di utilizzatori, WhatsApp.

In questo quadro il parlamento si è mosso nella scorsa legislatura assieme al Governo con il recepimento della direttiva europea sui pagamenti elettronici, la PSD2 (Payment Service Directive 2) prevedendo, nell’apposito decreto legislativo entrato in vigore a gennaio di quest’anno, misure a tutela dei consumatori e degli esercenti.

Si è posto un tetto alle commissioni interbancarie, portandolo allo 0,2% rispetto ad una media precedente dello 0,5% sulle carte di debito e al 0,3% dallo 0,7% sulle carte di credito. Mentre prima le commissioni erano modificabili dai circuiti, grazie al limite massimo che è stato introdotto si assicurano trasparenza e omogeneità, favorendo così la concorrenza sulla qualità del servizio offerto e non più (solo) sulle commissioni.

Inoltre i prestatori di servizi di pagamento sono tenuti ad applicare, per tutti i tipi di carte, commissioni di importo ridotto per i pagamenti fino a 5 euro rispetto a quelle applicate alle operazioni di importo pari o superiore, così da promuovere l’utilizzo delle carte anche per cifre molto basse

A protezione dei consumatori è previsto un regime di responsabilità ridotta nel caso di pagamenti non autorizzati; il decreto, infatti, abbassa la franchigia massima a carico degli utenti da 150 a 50 euro (salvo i casi di dolo o colpa grave).

Queste sono solo alcune delle novità introdotte. Ciò significa che il compito del legislatore si è esaurito? Assolutamente no, ma il nuovo parlamento e il nuovo governo trovano un terreno arato su cui seminare nuovi interventi di incentivazione, sostegno e promozione dei pagamenti digitali come forma di maggior trasparenza per cittadini, imprese e Stato.

Credo che un’azione importante andrebbe intrapresa sul fronte dell’educazione finanziaria, promuovendo una massiccia campagna di comunicazione sui mezzi di massa per sostenere la convenienza e l’affidabilità dei pagamenti digitali. Perchè ancora troppe persone pensano che un pagamento in contanti sia più sicuro di uno elettronico e ancora troppi operatori economici faticano a compiere il salto di qualità. A partire dal tassista che mi ha riaccompagnato in ufficio dopo il convegno, che non accettava carte di credito, bancomat o altri strumenti immateriali: a dimostrazione del fatto che non bastano le leggi, ma serve anche e soprattutto un cambio di passo culturale.